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VOLUME XIX
ANNO 2011
N 3
Indice
IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XIX, N°3, 2011


Sommario
Editoriale
Pasquale Pisseri
pag. 7

TRA PRASSI E TEORIA
Introduzione: Vie dell‟Etnopsichiatria
Salvatore Inglese
pag. 17

APPUNTI DI VIAGGIO
Disturbi da stress post traumatico e disturbi da spavento: ripensare il trauma da una prospettiva etnopsichiatrica
Tobie Nathan, Catherine Grandsard
pag. 31

Babelogue. Lingue e processi di mediazione clinica
Filippo Casadei, Salvatore Ingloese
pag. 57

QUATTRO PASSI PER STRADA
Recensione:
“La signorina che faceva HARA-KIRI e altri saggi“
di Franco Borgogno
Carmelo Conforto
pag. 89
Editoriale


Questo numero e integralmente dedicato all'etnopsichiatria, e cosi pure il prossimo.
Infatti il materiale pervenuto dal dott. Salvatore Inglese e tanto ricco da richiederne la distribuzione in due numeri della rivista. Il compito dell'etnopsichiatra non e semplice, poiche incontra una duplice difficolta: il rapporto con il paziente mentale e quello con lo straniero hanno in comune la necessita di approccio a un mondo mentale "altro", in cui le necessarie comprensione ed empatia rischiano di trovarsi in scacco. Ricordiamoci la radice comune delle parole "alieno" e "alienato", entrambe evocatrici di angoscia. Nel rapporto con il paziente straniero i due diversi problemi di approccio si sommano, o piuttosto si moltiplicano.
I contributi di questo numero ci insegnano pero a considerare non soltanto le difficolta dell'impresa ma anche l'opportunita che essa ci offre di affinamento delle nostre capacita operative e di riflessione teorica.
Abbiamo una certa abitudine a considerare l'etnopsichiatria come tema in qualche modo collaterale; un capitolo fra i tanti, cui alcuni specialisti si dedicano a fondo mentre la gran maggioranza di noi se ne interessa marginalmente. Il DSM IV TM dedica poche pagine alle sindromi legate alla cultura, nonche al profilo culturale che e necessario considerare nella prassi applicativa in contesti multiculturali. E' suggestivo trovare in tali pagine categorie come il cosiddetto "ataque de nervios", tipico della cultura "latina", cioe della nostra; il termine e tuttora vivo nell'uso comune dei paesi latini, almeno in alcuni contesti geografici e sociali. Esperienza, dicevo, suggestiva e salutarmente destabilizzante perche sposta per un momento noi neolatini dalla posizione di osservatori a quella di oggetto della osservazione scientifica; e magari da quella di giudicanti a quella di giudicati.
L'introduzione di Salvatore Inglese, di grande spessore metodologico, rovescia completamente la prospettiva: presenta l'etnopsichiatria quasi come atta a rifondare la nostra disciplina grazie alla sua "tensione polemologica non finalizzata alla ricomposizione irenica fra teorie conflittuali" (portatrice, potremmo ricordare con il termine di paragone piu illustre possibile, non della pace ma della spada).

Addirittura, cio ha condannato Devereux all'isolamento e all'emarginazione personale.
Per Inglese, l'etnopsichiatria "non si lancia alla scoperta della mente o dell'apparato mentale ne sul versante neuroscientifico ne su quello psichiatrico, psicologico, psicoanalitico".
Non vengono quindi condivise posizioni esplicative, sul piano di una causalita psicologica o biologica; e ravvisabile forse una maggior vicinanza alla fenomenologia, in quanto questa rinuncia programmaticamente a tentativi di spiegazione causale: pare mostrarlo, fra l'altro, l'adozione di termini quali "mondanizzazione" e "presentificazione".
E' da ritenere in effetti che non sia, ne dovrebbe esserlo, vocazione dell'etnopsichiatria l'entrare in concorrenza o competizione con le varie teorie, il condividerle o meno, o proporre teorie alternative: parrebbe piu proficuo, e perfino piu importante, porre l'approccio etnopsichiatrico come preliminare allo sviluppo di teorie e alla revisione di quelle esistenti, come fornitore di una base di dati e conoscenze piu vasta e multiforme di quella su cui e nata la psichiatria classica, nelle sue varie divaricazioni teoriche e metodologiche.
Certo, l'Autore non concorderebbe nel considerare meta valida il conseguimento di una nuova obbiettivita piu ampiamente fondata, ma manterrebbe comunque la sua posizione: "questi oggetti che vi interessano non sono affatto fenomeni naturali ne universali, ma costituiscono un evidente prodotto storico''.
Il considerare la mente individuale e il suo dolore come socialmente situati e stato oggetto di ampie riflessioni di psichiatri, psicologi, filosofi: citando un po' a casaccio si possono ricordare il Freud di Psicologia delle masse, Wilhelm Reich, Erich Fromm, la scuola di Francoforte, Marcuse. Ma Salvatore Inglese ripropone la topica con inconsueta radicalita, che investe necessariamente lo statuto epistemologico della nostra disciplina: questa infatti non ha ne puo avere un oggetto di studio naturale e obbiettivabile, ma ha a che fare con fenomeni storicamente e culturalmente determinati.
Dunque, "Etnopsichiatria non vuol dire''. lo sviluppo di una specializzazione medica: essa non e la psichiatria etnica coltivata da psicopatologi sensibilizzati alle altre culture"; si propone come radicale sfida metodologica, che si propone di "accendere una centrifuga cognitiva in cui le varie discipline sono disposte a scambiare le proprie conoscenze, reputandole assolute nel proprio campo (chiuso) di esercizio e al tempo stesso negoziandole come relative quando entrano nello spazio pubblico (aperto) di una agora terapeutica".
Questa ottica trova una applicazione concreta esposta da Tobie Nathan e Catherine Grandsard nel loro lavoro sui disturbi da stress postraumatico. Essi recuperano il concetto di spavento, ben presente nel nostro lessico quotidiano ma non nella semeiotica psichiatrica, pur se vi si fa cenno nel DSM che lo include fra i criteri diagnostici necessari alla diagnosi di disturbo da stress acuto.
Il concetto ha un ruolo chiave nelle teorie sul trauma sviluppate, con sconcertanti analogie, da diverse popolazioni africane: per esse, il trauma comporta uno svuotamento e una frattura nel Se psichico ("o forse dovremmo dire la sua anima?" rileva Nathan), e nel vuoto risultante si insinua un essere alieno, non umano; il traumatizzato entra in contatto con un mondo "altro", sconcertante e mal comprensibile. E' tuttavia possibile una evoluzione positiva e maturativa della esperienza, come mostrano gli evidenti aspetti traumatici e dolorosi delle cerimonie di iniziazione.
Gli Autori, lungi dal considerare queste concezioni come rozze e primitive, le considerano con grande rispetto e umilta, ritenendole capaci di innegabili e concreti risultati terapeutici e atte a migliorare la nostra comprensione. E' interessante pure annotare, come fa l'Autore, che in Francia ancora nell'800 convulsioni e tics fossero effetto di una sorta di possessione. Questo ci ricorda che un ulteriore affinamento della prospettiva puo nascere dall'apporto integrato della storia della psichiatria nei suoi vari risvolti: le antiche elaborazioni teoriche, la risposta sociale - istituzionale o meno - alla follia, le fantasie su di essa che ci giungono con le opere letterarie, i dati pur frammentari sulle sue manifestazioni.
Inglese fa rilevare che una apertura a concezioni diverse e non necessariamente primitive e inferiori puo scontrarsi con l'angoscia che nasce dall'attuale "reazione generalizzata (dall'esterno) contro i fondamentali dell'Occidente", dal "vedere contemporaneamente restringersi il raggio di influenza del mondo occidentale ed estendersi quello di altre costituzioni sociali, culture e civilta". Cio mi sembra solo in parte condivisibile: e certo vero che l'Europa e in parte anche quella sua filiazione che sono gli USA vedono scosso il loro predominio economico - politico - militare: ma e lo stesso sul piano culturale? La sfida emergente di India e Cina si fonda sulla acquisizione e sviluppo di competenze scientifiche e tecniche di origine occidentale con parziale rinuncia al patrimonio culturale tradizionale, e nell'altra nuova grande potenza economica, il Brasile, si parla una lingua neolatina; sul piano culturale, l'Occidente non ha affatto smesso di colonizzare il mondo.
Restringendoci nuovamente al nostro campo, ricordo una mia esperienza personale di anni fa in Nepal : vi e tuttora assai diffuso il ricorso ai tradizionali "witch doctors", quali i Vaiyas, i Gubhaiu, i Dhamis, i Jhakri, le cui pratiche si ispirano a teorie ayurvediche o comunque nell'ambito della concezione religiosa induista; ma la psichiatria pubblica di quel paese - almeno per l'esperienza diretta che ne ho avuto - tende a considerare cio come un fenomeno residuale e possibilmente da cancellare gradualmente, pur se finora maggioritario: e segue invece fedelmente la classificazione del DSM, rinunciando a un vero confronto, se non a una integrazione, con la medicina tradizionale.
Questo atteggiamento, se condiviso in altri paesi - e ritengo che prevalentemente lo sia - e certo utile alla raffrontabilita dei dati; ma alla luce delle riflessioni portate dagli Autori di questo numero potrebbe esser responsabile di una occasione perduta.
Nel contributo di Casadei e Inglese che chiaramente si rifa alla impostazione proposta nella introduzione, l'intenzione degli Autori si annuncia gia dal titolo quasi provocatorio, Babelogue: Babele e dialogo. Mentre nel nostro abituale modo di esprimerci e nel mito biblico Babele e sinonimo di confusione caotica, per l'Autore il multilinguismo e insostituibile occasione di incontro, come espresso nel mito degli Indiani Akoma, in cui la Divinita moltiplica le lingue non per punire gli uomini ma al contrario per moltiplicare le occasioni di scambio e reciproca comprensione tramite uno sforzo interpretativo che consenta di por fine alle violenze reciproche.
Il tema e fondamentale in tempi di immigrazione anche per le sue dirette implicazioni pratiche, poiche il dialogo e il miglior antidoto alla violenza. Ce lo ha insegnato, fra gli altri, Pirandello nella novella "Il corvo". Questo (o questi?), imprigionato da un contadino, protesta invano: "Non e che il corvo non gridasse le sue ragioni: le grido, ma da corvo: e non fu ascoltato". Ne segue una catena di incomprensioni e paure destinata a concludersi in tragedia.
Ma nella visione proposta dagli Autori, la differenza di linguaggio non e un puro e semplice ostacolo bensi una opportunita per incentivare lo scambio poiche la lingua dell'altro, nella sua struttura e rete di significati, e fattore fondamentale per la comprensione della sua esistenza storicamente e culturalmente situata: l'intervento di cura ha quella che gli Autori definiscono una parte etnoclinica.
L'operazione etnopsichiatrica deve dunque contare su un gruppo denominato "di mediazione", di cui l'interprete e figura fondamentale ma non unica : gli altri membri e il clinico stesso non si limitano ad attendere la traduzione in modo da ottenerne una comprensibilita meccanica di quel che il paziente dice, ma seguono il lavoro del traduttore nel definire l'incontrarsi e l'integrarsi di strutture e significati. Si forma cosi uno spazio pubblico di parola per la dimensione culturale e quella psicologica ove la parte lasciata alla lingua dello straniero aiuta a non figurarselo come culturalmente nullatenente. Per contro, l'impiego dell' italiano come lingua obbligatoria nel colloquio puo essere premessa all'imporre i nostri modelli clinici e psicologici, dopo aver espropriato, con operazione non priva di violenza, lo straniero della propria lingua. Inoltre, la lingua naturale del clinico spesso non contiene termini atti a codificare identita e natura dei personaggi del mondo interno, delirante o meno, dello straniero. Al contrario, l'apertura alla lingua di questi consente allo strumento linguistico di portarci nel cuore della sua cultura.
In sintesi, le lingue devono superare la loro chiusura strutturale e funzionale per aprirsi l'una all'altra. Il dispositivo di mediazione pluriliguistico rende visibili entita altrimenti sfuggenti: senza traduzione e mediazione, si perde il contatto col gruppo del paziente.
Anche se gli Autori non vi fanno riferimento esplicito, il loro lavoro non puo non richiamarci alla classica lezione di Lacan sulla centralita e primarieta dell'ordine simbolico del linguaggio, sulla attenzione da riservare al significante non meno che al significato.
Il numero e arricchito da una recensione di Carmelo Conforto al volume di Franco Borgogno "La signorina che faceva hara-kiri e altri saggi"; recensione che ha lo spessore di un articolo originale. Richiama piu volte la centralita, specie con pazienti gravi dalla espressivita prevalentemente pre-verbale, della condivisione emotivo . empatica al di la di ogni interpretazione formalmente corretta, e della necessita che l'analista sappia convivere con pesanti sentimenti traumatici, rispondendo alla richiesta dell'analizzato di esperire la sofferenza connessa, nonche di cogliere la "terribile fame d'amore nascosta dietro all'essersi sottratti agli scambi umani".
L'analizzato non manca di indagare su queste capacita del terapeuta e sulla sua affidabilita.
Tutto cio si collega alla nozione di trauma precoce, connesso o meno a una dimensione di desiderio sessuale. A questo proposito, viene citata l'espressione di Ferenczi "la confusione delle lingue fra adulti e bambini": viene cosi ripreso, in coincidenza certo casuale e in diversissimo contesto, il tema - caro all'etnopsichiatra - dell'incontro fra linguaggi diversi, che puo evolvere in conflitto o in integrazione.
La svolta della terapia e il passaggio dalla preconcezione bioniana alla concezione dell'oggetto psicologico introiettabile e da sempre atteso per riempire il vuoto angosciante della morte psichica.
Carmelo Conforto mantiene una posizione aperta, fondata su riflessioni e confronti arricchenti, su "accostamenti e interrogativi che altri modelli ci sollecitano".

Pasquale Pisseri

 


 


 


 




Tobie Nathan*, Catherine Grandsard**



Disturbi da stress post-traumatico e disturbi da spavento: ripensare il trauma da una prospettiva etnopsichiatrica[1]



RIASSUNTO


La psicopatologia scientifica e i vari approcci psicoterapeutici, quando si misurano con i disturbi di tipo traumatico, sembrano incapaci di avanzare con la stessa raffinatezza tecnica e precisione teorica utilizzate invece con altre categorie di disturbi mentali. Gli autori sottolineano con forza come il trauma manifesti una peculiare resistenza non solo al trattamento, farmacologico e psicoterapico, ma anche a essere ripensato dalle discipline cliniche. Se è vero che gli eventi traumatici segnano il limite delle terapie moderne, le quali non si curano del mondo esterno e si concentrano invece sulla soggettività psicobiologica della vittima, la proposta contenuta in questo articolo costituisce una sfida: spostare l’attenzione terapeutica dalla vittima del trauma all’evento traumatico, trattando per così dire l’evento al posto della persona. È ciò che fanno i sistemi tradizionali quando mettono alla base del disturbo traumatico il concetto di spavento. Nelle lingue – qui se ne esplorano alcune come il quechua, il wolof, l’arabo, il kirundi – si troverebbe inscritta una teoria dello spavento comune a diverse culture: lo spavento consisterebbe nell’incontro terrifico e casuale con un essere di un altro mondo, che invade lo spazio interno dell’essere umano, dopo che in quest’ultimo si è aperta una breccia psichica. Questo modello viene estratto e commentato anche a partire da diversi casi clinici attraverso i quali si sviluppa il ragionamento degli autori.



PAROLE CHIAVE: Stress post-traumatico, Spavento, Metamorfosi







* Professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia, fondatore del Centro Georges Devereux – Università di Parigi 8; attualmente Consigliere Culturale presso l’ambasciata francese di Guinée-Conakry




** Psicologa clinica e psicoterapeuta familiare, docente di Psicologia Clinica e Psicopatologia, co-direttrice del Centro Georges Devereux – Università di Parigi 8




[1] Relazione presentata alla Third International Trauma Research Net Conference, Trauma-Stigma and Distinction: Social Ambivalences in the Face of Extreme Suffering, St Moritz, 14-17 Settembre 2006. Traduzione a cura di Filippo Casadei e Salvatore Inglese


 






 




Filippo Casadei*, Salvatore Inglese**



Babelogue. Lingue e processi di mediazione clinica


 


 



RIASSUNTO


La molteplicità babelica delle lingue propria delle società complesse viene qui assunta come elemento centrale di una clinica etnopsichiatrica aperta alle avventure della globalizzazione. Il ragionamento degli autori cerca di andare oltre il tema della traduzione e del modello intersoggettivo della mediazione (paziente-mediatore-terapeuta) per affrontare invece la questione di come si possa curare l’altro facendo intervenire le lingue (parlate dal gruppo-paziente e dal gruppo-operatore) come strumenti di lavoro clinico. In antitesi con la monolingua, che esercita sempre una forma di terrore sull’altro, il dispositivo di mediazione si configura come macchina clinica plurilingue in grado di costruire delle connessioni nuove con i gruppi e i contesti d’origine del paziente. Gli autori propongono un uso differenziale delle lingue nel setting clinico a seconda del gruppo-paziente che si ha di fronte. Nel caso di famiglie migranti dove si lavora con genitori e figli insieme non si utilizzerà solo la lingua matrice per parlare con tutti i membri, ma si prediligerà una comunicazione bilingue per mettere in rilievo il cambiamento culturale cui va incontro l’intero gruppo migrante.



PAROLE CHIAVE: Lingue, Mediazione etnoclinica, Teoria della traduzione


 







* Etnolinguista (Dipartimento Salute Mentale ASL Firenze e Prato); Dottorando in Antropologia ed Epistemologia della Complessità (Università di Bergamo); FAR/ERG (FAR/Etnopsychiatry Research Group)




** Psichiatra, Psicoterapeuta, antropologo medico; Responsabile Modulo di “Psichiatria Transculturale e di Comunità – Metodologia della ricerca” – Dipartimento Salute Mentale ASP Catanzaro; FAR/ERG (FAR/Etnopsychiatry Research Group)


 





 


 

Il Vaso di Pandora, Dialoghi in psichiatria e scienze umane
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