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VOLUME XX
ANNO 2012
N 2
Indice  

IL VASO DI PANDORA


Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XX, N°2, 2012


Sommario


 


Editoriale


Dario Nicora


pag. 7


 


TRA PRASSI E TEORIA


Ad Absurdum. Note a margine del Diario Clinico di Sándor Ferenczi


Gianni Guasto


pag. 13


 


APPUNTI DI VIAGGIO


“Io nel pensier mi fingo”


Ambiguità e immaginazione nella terapia istituzionale


Giuseppe Berruti


pag. 53


 


L’Io nello sguardo


Renato Donato


pag. 71



QUATTRO PASSI PER STRADA


Recensione:


“Corporeo affetti e pensieri. Intreccio tra psicoanalisi e neurobiologia“


Di Antonella Granieri


Carmelo Conforto


pag. 87






Editoriale



Questo numero del Vaso di Pandora si presenta ricco e interessante.


Gli articoli hanno in comune una ricerca di senso che intreccia tra loro scienza,  filosofia e analisi interiore.


Il primo articolo mi ha colpito: attraverso la presentazioni del Diario Clinico di Sandor Ferenczi e di brani tratti dall’epistolario con Sigmund Freud, Gianni  Guasto presenta uno spaccato della storia della psicanalisi, dai primi lavori di Freud sull’isteria, fino alla disputa per diventare il suo principale erede agli occhi del mondo accademico. 


Il punto chiave dell’articolo è la presa di distanza dell’allievo prediletto Ferenczi, colpevole agli occhi del maestro di avere messo in discussione l’egemonia della fantasia inconscia e di avere dato credito all’esperienza reale traumatica. Oltre all’interesse per i temi trattati e per il valore storico della documentazione presentata, mi hanno colpito almeno tre particolarità. La prima è stato scoprire, nella narrazione di aspetti della vita vissuta, l’umanità di autori che considero icone, umanità intesa anche come fragilità e imperfezione. Per esempio mi ha sorpreso sapere che Freud sia stato, in alcune circostanze, ricalcitrante, vendicativo, riottoso. Per non parlare di Ernest Jones, opportunista formale e ambizioso e di Ferenczi stesso, tentato di avere dei figli con la figlia della sua fidanzata, che aveva preso in cura. 


Simile a questa considerazione è anche la seconda, che riguarda il rigore del setting. Ho sempre immaginato il setting come qualcosa di piuttosto definito e rigoroso e non sono rare le riflessioni, nei gruppi di lavoro delle comunità terapeutiche in cui lavoro, per le frequenti e, per alcuni versi, inevitabili piccole violazioni che si rendono necessarie nella vita quotidiana. Mi ha sorpreso scoprire che i padri della psicanalisi all’inizio fossero, oltre che inclini ad una non rara violazione della distanza terapeutica, instaurando con le proprie pazienti relazioni sessuali, anche così aperti alla ricerca di definizioni e alla sperimentazione di situazioni insolite. E’ il caso della teorizzazione di Ferenczi del principio di concessione, consistente nel dare piena libertà al paziente (sprezzantemente definito da Freud “tecnica del bacio”) o anche della sorprendente disponibilità dello stesso Freud a trascorrere la serata con i figli che una sua paziente, che seguiva in analisi, aveva portato a casa sua, perché conoscessero il maestro.


Queste due considerazioni, le imperfezioni dei padri della psicanalisi e le palesi incongruenze del setting da loro stessi sperimentate, se da una parte mi confondono, dall’altra mi consolano e mi incuriosiscono. Mi consolano perché mi restituiscono clemenza nei confronti delle mie perenni insicurezze e anche di fronte ai continui compromessi tra le finalità della cura e le esigenze di una quotidianità incombente cui viene sottoposto il setting nelle comunità terapeutiche in cui lavoro. Mi incuriosiscono perché mi confermano che nelle relazioni umane, comprese le relazioni asimmetriche tra paziente e terapeuta, la verità e l’efficacia di chi si propone con funzioni d’aiuto, non sono assiomi, ma obiettivi da perseguire in una costante ricerca di senso. A questo proposito è esemplare il brano della lettera che Ferenczi scriveva al suo maestro: “… sono ancora immerso in un lavoro di chiarimento interno ed esterno, e anche scientifico, che non ha ancora prodotto risultati definitivi … spesso mi spingo fino “ad absurdum”, ma ciò non mi scoraggia, cerco di proseguire lungo altre vie, spesso diametralmente opposte, e non rinuncio alla speranza di trovare, presto o tardi la strada giusta …”.


Il terzo elemento che mi ha colpito è stato conoscere che Sandor Ferenczi ha coltivato a lungo il sogno di una comunità ideale, la comunità analitica basata sulla totale franchezza. Mi sembra un sogno ricorrente nella storia dell’uomo: molti hanno proposto comunità ideali, fondate di volta in volta sull’amore, sulla comunione dei beni, sulla condivisione di un ideale, sulla condivisione di una comune origine, di una comune fede religiosa, di un credo politico condiviso. Epigoni di questo sogno ricorrente sono stati Tommaso Moro e Tommaso Campanella. E’ possibile però che la comunità ideale non esista e nessun valore da condividere, nemmeno la totale franchezza, potrà sollevarci dalla fatica di avvicinarci con delicatezza alle altre persone, per cercare di realizzare con loro una relazione e non rimanere soli.


E molto solo probabilmente sarebbe rimasto Giovanni, l’uomo apparso un po’ dal nulla, con il viso scavato pallido e la palandrana nera - di cui ci parla Giuseppe Berruti nel secondo articolo - se qualcuno non avesse incontrato il suo sguardo lungo le scale di un Centro di Salute Mentale.  Berruti ha il merito di non rinunciare a fare emergere un pensiero dalle emozioni che la relazione con i pazienti ci suscitano nelle residenze psichiatriche, non un pensiero qualunque, ma un pensiero che diventa cura.  Egli fa parte di un gruppo che da molti anni promuove l’incontro tra filosofia e psichiatria e nell’articolo si sofferma in particolare su due concetti, l’immaginazione e l’ambiguità.


Paul-Claude Racamier definiva la psicosi l’orrore di pensare e il terrore di immaginare. Egli sosteneva che i pazienti psicotici non riconoscono e non praticano l’ambivalenza e l’ambiguità, ciò che è a cavallo tra due verità.  Ecco dunque che la riflessione di Berruti sul lavoro nelle istituzioni psichiatriche si ricollega a quelle che Racamier chiamava le complementarietà contraddittorie, ossia alla creazione di uno spazio intermedio dove l’ambiguità della realtà e della verità possa delicatamente diventare fruibile anche per i pazienti. Il teatro insieme ai pazienti, così come il gioco per i bambini o come gli oggetti transizionali o come gli oggetti e le azioni parlanti possono assolvere a questa funzione, creare un ponte per incontrarsi e provare a comprendersi. Berruti si sofferma a riflettere sullo sguardo, che svolge una funzione centrale per cercare una risonanza emotiva con le altre persone e favorire l’incontro, chiedendosi a quali condizioni l’incontro contribuisca ad una ricostruzione di senso e ad una finalità di cura.     In un brano del suo articolo dichiara che il senso si costruisce nell’assenza. Ricordo di avere visitato nel 2004 una mostra di Amedeo Modigliani a Roma. Il suo stile personalissimo propone figure umane dalle forme allungate e ritratti quasi sempre concepiti con occhi senza pupille. Non ci sono documenti che accertino quali fossero le reali intenzioni di Modigliani, ma alcuni ritengono plausibile che l'artista volesse così indicare lo sguardo interiore del personaggio raffigurato. In effetti mi ha sorpreso considerare come l’assenza - e non la presenza - delle pupille contribuisca a conferire quella intensa spiritualità che traspare dai suoi ritratti.


Al tema dello sguardo è dedicato tutto il terzo articolo. Anche Renato Donato si sofferma sull’assenza. In particolare riferendosi alle maschere del teatro greco o della tradizione giapponese … lo sguardo non è espressione, non dice di un’anima che lo produce, è piuttosto un’assenza. L’articolo di Donato procede per successive contrapposizioni, in particolare tra lo sguardo che favorisce l’incontro  e lo sguardo che tiene il mondo a distanza.


L’ultimo articolo è una recensione del Professor Conforto di un libro scritto da Antonella Granieri sull’intreccio tra Psicanalisi e Neurobiologia. Mi soffermo solo su un dato. Forse Freud aveva ben ragione di prendersela con Ferenczi, per avere messo in discussione l’egemonia della fantasia inconscia e avere dato credito all’esperienza reale traumatica. Tutti gli sviluppi successivi, in particolare della Psicologia del Sé e della Teoria dell’attaccamento, hanno dimostrato che la strada intrapresa da Ferenczi era giusta e che lo sviluppo della personalità del bambino, sia in senso positivo che in senso negativo, avviene in dipendenza della qualità della relazione del bambino con le figure di riferimento, in particolare con la madre. I dati delle neuroscienze confermano la creazione  ed il consolidamento di contatti sinaptici, tanto più gli eventi della vita reale hanno una forte connotazione emotiva.


Concludo riprendendo il tema dello sguardo: Heinz Kohut usò la bellissima espressione “luccichio negli occhi della madre” per descrivere le risposte d’approvazione che sono essenziali per lo sviluppo normale del bambino, in quanto gli offrono il senso di una relazione significativa, empatica e convalidante, indispensabile per mantenere la coesione del loro mondo interno ed il sentimento di valore di sé.


 


Buona lettura                                                                                  


                                                                                                                                                                                               Dario Nicora


 


 


 


 


ARTICOLI


 


 




Gianni Guasto*



 


AD ABSURDUM


Note a margine del Diario Clinico di Sándor Ferenczi[1]


 


 



RIASSUNTO


Chi si proponesse di commentare esaurientemente la lettura intricata e affascinante del “Diario Clinico” di Sándor Ferenczi sarebbe costretto a oltrepassare i confini spaziali di un articolo scientifico; per questa ragione, l’Autore  ha scelto di limitarsi a osservare lo sviluppo di due soli fra i molti temi trattati nel Diario: il trauma e l’analisi reciproca. Ma per poter comprendere appieno tali sviluppi senza cadere in semplificazioni fuorvianti, è necessario confrontare l’evoluzione delle elaborazioni teoriche e delle sperimentazioni tecniche con le complicate vicende affettive, conflittuali e talvolta drammatiche che intercorsero fra i primi psicoanalisti, Freud compreso.


In questo lavoro, l’Autore prova a ripercorrere l’intreccio fra produzione scientifica e vita vissuta, constatando come tali temi sollecitino, ancora oggi, questioni sorprendentemente attuali per la teoria e per la tecnica psicoanalitica.


 


 


PAROLE CHIAVE: Ferenczi, Freud, Diario Clinico, Trauma, Commozione Psichica (Erschütterung), Analisi Reciproca, Teoria della Seduzione, Neocatarsi.


 






* Psichiatra




[1] Questo articolo è una rielaborazione della relazione introduttiva che l’Autore ha presentato alla IV Giornata Nazionale di Studi dell’Associazione Culturale Sándor Ferenczi (Genova, Teatro dell’Istituto “Vittorino-Bernini”, 2 Aprile 2011).


 


 


 


 




Giuseppe Berruti*



 


Io nel pensier mi fingo. Ambiguità e immaginazione nella terapia istituzionale



 


riassunto


 


La terapia istituzionale, nelle sue diverse articolazioni, si fonda nella vita quotidiana e sull'uso di categorie di base dell'esperienza, come spazio, tempo e azione; in questo scritto vengono presi in considerazione alcuni di questi elementi fondamentali. L'immaginazione viene descritta da Silvana Borutti come una via di conoscenza estetica fondata nel corpo e non verbale. P.C. Racamier descriveva l'ambiguità come la capacita da parte di un oggetto di partecipare a due diverse nature.


Questo concetti ci consentono di pensare alla comunità terapeutica come ad un setting dove si mettono in scena rappresentano individuali e di gruppo di vita psichica, così come in psicoanalisi, ma su un terreno maggiormente drammatico.


 


PAROLE CHIAVE


 


Ambiguità, pensiero finzionale, terapia istituzionale, psicoanalisi, rappresentazione.





* Responsabile Strutture Intermedie DSM Asl 2 Savonese.


 


 


 


 


 


 




Renato Donato*



 


 L’Io nello sguardo





RIASSUNTO


Che cos’è uno sguardo e che cosa c’è dietro? La domanda che evidentemente non può avere una risposta definitiva tende a porre la questione dello sguardo su un piano per così dire ontologico, superando  per quanto possibile la dimensione psicologica.  Si cerca di analizzare la cosa – sguardo nel suo essere e nella sua non – funzione. C’è una distanza tra lo sguardo ed il guardare , l’occhio ha una funzione non visiva ma straniante, tiene a distanza appunto l’oggetto, lo fissa, lo immobilizza nello spazio e nel tempo.  Ma di chi è lo sguardo? Chi è l’io che si pone dietro? La questione assume caratteri diversi nel momento in cui si analizzi il mio sguardo o quello che mi ‘guarda’ o uno sguardo osservato. Quando guardo uno sguardo osservo l’espressione di un volto o cerco di penetrare una distanza insondabile? Nella discussione si pone l’alternativa tra lo sguardo scontro di coscienze (da Hegel a Sartre) e l’incontro (Merleau-Ponty e Levinas).  Lo sguardo come peso insopportabile nel Film di Beckett .


 


 


PAROLE CHIAVE


Sguardo : inerzia/attività, Alterità/altrove, Io guardante/occhio, Intenzionalità/desiderio.












* Docente di Filosofia e Scienze Umane, Liceo delle Scienze Umane, Istituto “Duchessa di Galliera”,  Genova


 




 


 



 




 

Il Vaso di Pandora, Dialoghi in psichiatria e scienze umane
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Iscrizione al Tribunale di Savona n. 418/93 - ISSN 1828-3748