Considerazioni non sistematiche sui modelli psicoanalitici delle psicosi6
Credo nel progresso: nell'invenzione
di una “macchina per leggere i pensieri”
che sono stati pensati.
(Stanislaw J. Lec)
Propongo di iniziare ricordando la risposta di Bion (1976, p. 83)7 alla domanda: «Quale è la relazione tra credenza e conoscenza?».
«Non vedo perché ci si dovrebbe preoccupare di credere in qualcosa che si conosce. Si dovrebbe, certamente, riservare la propria capacità di credere per cose di cui non ci sia alcuna evidenza. Altrimenti si dovrebbe trovare un nuovo linguaggio. Termini come «redenza» sono usati in modo molto ambiguo nel linguaggio ordinario; preferisco usarli quando non ho fatti per sostenere ciò che desidero dire. Io «credo» che valga la pena tentare la psicoanalisi con un paziente che può essere definito schizofrenico, se non vi è altro da tentare.
In tal senso si potrebbe dire «credo» nel tentare. Non intendo dire che un paziente schizofrenico possa essere analizzato o curato, sebbene abbia conosciuto pazienti che erano stati diagnosticati insani da persone che per definizione erano qualificati a farlo, i quali, una volta finito la loro analisi con me furono giudicati migliorati da molte persone, ma non da me. Essi avevano trovato la via, qualunque fosse il loro modo di pensare, per poter mostrare una buona imitazione di un normale essere umano. Ma poiché tutti coloro che erano legati al paziente volevano «credere» in ciò (in questa imitazione), non so quale importanza si possa attribuire alla loro opinione».
Ho voluto iniziare con la citazione di Bion perché esprime la duplice "anima" del lavoro psicoanalitico, l'intenzione esplorativa, l'indagine alla ricerca di significati, adatta a costruire modelli intorno alla psicosi, e la propensione terapeutica, implicita nel lungo percorso psicoanalitico.
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Peraltro Freud, nell'affrontare l'autobiografia del giudice Schreber (1910), alla ricerca del significato, progetto nato (forse) grazie all'assenza del paziente e dell'impegno terapeutico, propone la ragione del suo intento:
"L'interesse dello psichiatra di professione per formazioni deliranti di tal genere si esaurisce comunemente con l'accertamento di quali siano i prodotti del delirio e con la valutazione dei loro effetti sul comportamento generale del malato. Lo psicoanalista fa derivare invece, dalla propria conoscenza delle psiconevrosi l'ipotesi che formazioni mentali tanto inconsuete e così lontane dal nostro comune modo di pensare traggano origine dai più comuni e comprensibili impulsi della vita psichica, e la sua aspirazione è di imparare a conoscere i motivi e i processi di questa trasformazione".
Al termine del suo percorso, non suffragato da una qualche risposta del malato, aggiunge: "Sarà l'avvenire a decidere se la mia teoria contiene più delirio di quanto non vorrei, o se il delirio di Schreber contiene più verità di quanto altri oggi non siano disposti a credere".
Freud sta parlando della tesi per la quale la paranoia si costruisce come difesa dall'angoscia omosessuale attraverso la formula che ne descrive l'inacettabilità, il ripudio: l'affermazione "Io (un uomo) amo lui (un uomo)" si capovolge nel delirio di persecuzione: " Egli mi odia (mi perseguita), ed io lo odio perché mi perseguita".
Freud, straordinariamente, nel 18948aveva intuito una delle modalità fondamentali della dimensione psicotica: "Esiste per altro una forma di difesa, più energica e efficace, consistente nel fatto che l'Io respinge la rappresentazione incompatibile unitamente al suo affetto e si comporta come se, all'Io, la rappresentazione non fosse mai pervenuta. Solo che, nel momento in cui ciò si attua, il soggetto viene a trovarsi in uno stato di psicosi classificabile come "follia allucinatoria".
Cosicché Freud, in certo modo seguendo ciò che le psiconevrosi gli avevano rivelato attraverso il meccanismo della rimozione (verdangung), ripropone anche nella psicosi la fondamentalità di un percorso espulsivo di dati psichici la cui conservazione è intollerabile.
Scrive nel 19239:" In conclusione bisogna concentrarsi sul problema di quale possa essere il meccanismo, analogo alla rimozione, in virtù del quale l'Io si distacca dal mondo esterno. Ritengo che a questo problema non possa essere data una risposta se non vengono effettuate ulteriori indagini; mi sembra però che, al pari della rimozione, tale meccanismo dovrebbe consistere in un ritiro dell'investimento che promana dall'Io (disconoscimento, verleugnung).
Meccanismo che riprenderà nello scritto sul feticismo (1927), in cui la perversione si propone in quanto viene "rinnegata o disconosciuta" (verwefung) l'evirazione della donna.
E' pertanto a partire da ciò che è occultato, rifiutato dall'Io che si inizia a strutturare il modello, successivamente i modelli, della psicosi.
Attraverso ciò che non appare, che sfugge alla consapevolezza, come nelle nevrosi, d'altronde, anche se ben diversa ne è la trasformazione.
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Trasformazione10 è il termine con cui Bion indica il lavoro dello psicoanalista quando si prefigge di cogliere il significato di ciò che l'analizzato, attraverso sogni, parole, emozioni, comportamenti, "messa in atto" (enactement), può comunicare di un significato originario, di cui permangono alcune, o scarse invarianti.
“Un' interpretazione -scrive Bion- è una trasformazione per mostrare le invarianti, sentita e descritta in un modo (dal paziente) e descritta in un altro modo (dal terapeuta)”.
Prendo in considerazione le trasformazioni riguardanti ciò che lo psicotico cerca di rendere pubblico, di comunicare del suo mondo interno.
E' a questo livello che i modelli psicoanalitici si sono così faticosamente adoperati, costruendo, immaginando le potenziali, residue capacità transferali e simboliche di stati mentali frammentati, naufragati nella catastrofe, nel crollo originario (quello che Winnnicott ha chiamato crollo dell'unità del Sé e recentemente Rinaldi ha definito stati caotici della mente11).
Questo inseguire il significato della psicosi pretende il tentativo di decifrazione dei segni (sintomi) psicopatologici che, ove non trasformati, non segnalano se non se stessi, elementi di una diagnosi che non raggiunge cognizioni ontologiche, limitandosi a tentativi di spiegazioni somatogene (lo erklaren che Dilthey e poi Jaspers contrappongono alla funzione del comprendere (verstehen) delle vicende psicopatologiche dell'umano12).
Quando la psicoanalisi ha iniziato a occuparsi di simboli anche nell'ambito delle psicosi, allora ha creduto che i segni, come scrive Ricoeur13 siano "espressioni che comunicano un senso, manifestato dall'intenzione di significare veicolato dalla parola". Non solo dalla parola, suggerisce la psicoanalisi.
Ha inizio un lungo percorso in cui la relazione psicoanalitica tenta di promuovere un progetto conoscitivo e insieme terapeutico con il paziente psicotico.
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Penso al lavoro pionieristico di Sabina Spielrein14 (1911), descritto nella sua tesi di laurea: "Il contenuto psicologico di un caso di schizofrenia (dementia praecox)".
Inizia la sua tesi scrivendo: “Ho intrapreso l'indagine di un caso di demenza paranoide senza seguire i canoni della scienza ufficiale, ma guidata unicamente dall'intenzione di dare uno sguardo più approfondito all'anima di questa paziente. Ho scelto questo caso perché la paziente, una donna intelligente e di buona cultura, offre un groviglio di frasi senza senso...... Le prove a sostegno della mia interpretazione derivano in molti casi da affermazioni dirette e spontanee della paziente.... Tuttavia chi vorrà verificare l'esattezza delle mie conclusioni dovrà procedere come un giudice istruttore che si immedesima a tal punto nel fatto da «sentire» in certo qual modo ogni parola15” .
In un contributo del 1992, scritto in collaborazione con la dr.ssa Corsa, prendevamo in considerazione il lavoro della Spielrein giungendo ad affermare che il suo scritto mostrava come la nascita del significato apparisse sospesa, nascosta dietro la forma di domanda con cui si interrogano a vicenda terapista e paziente. "Come se la riunione di queste comunicazioni alla ricerca di un senso assente necessitasse, per avvenire, di un altro spazio, non quello fisico, immediato, ma di un secondo, interno al terapista, in cui fosse, per così dire, sopravvissuta e conservata la nozione, l'idea di un senso potenziale" (1992, op. cit.).
Si evidenzia qui una fondamentale domanda sulla condizione mentale adeguata al lavoro dello psicoanalista, a cui risponderà nel modo (per me) più convincente Bion.
L'interrogativo è posto da Binswangwer a Freud (1925)16. Egli si interroga sull'osservazione di Freud per la quale l'analista deve mantenere il proprio inconscio di fronte al suo analizzando quanto un apparecchio ricevente di fronte all'onda sonora17.
Scrive nella lettera al maestro: "Mi sono sempre domandato sulla base di quale "capacità" o attitudine mentale voi fate derivare questa affermazione....Il problema di sapere che cosa mi mette nello stato di interpretare è per me più interessante del fare una interpretazione giusta e di imparare qualcosa di nuovo sull'inconscio dell'altro".
Freud risponde, anticipando concetti molto più recenti: “...io so che ciò nasconde altri importanti problemi. Io volevo dire semplicemente che è necessario liberarsi dell'accentuazione conscia di ciò che ci attendiamo, e di conseguenza creare in noi le medesime condizioni di quelle che esigiamo dai nostri analizzandi”.
Risponderà anni dopo Bion introducendo un nuovo modello, che, specifico del legame madre bambino, è adatto a raccogliere i proto-pensieri, i dati sensoriali, le emozioni senza ancora nome del piccolo, onde “convertirli in elementi alfa per provvedere in tal modo la psiche del materiale che le necessita per fabbricare pensieri...”18 .
Bion ha chiamato con il termine rêverie la capacità mentale della madre aperta a tutti i contenuti provenienti dal bambino e, per analogia, lo stato mentale dell'analista nella relazione con l'analizzato. Riparlerò di questo aspetto fondamentale dopo aver preso (brevemente) in considerazione alcuni contributi che si sono succeduti prima di giungere alla svolta teorico-clinica impressa dalla Klein e dalla sua scuola tra la fine degli anni '40 e gli anni '50.
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E' del 1919 il lavoro di Tausk “Sulla genesi della 'macchina influenzatrice' nella schizofrenia”19.
Tausk coglie un aspetto assolutamente specifico del modo d'essere dello schizofrenico, “la perdita dei confini dell'Io”, connessa alla proiezione del proprio corpo, “paranoia somatica” come modalità difensiva da impulsi libidici inaccettati (la masturbazione, ad esempio).
Esponendo le modalità del suo lavoro con gli psicotici, propone “l'equiparazione del sintomo a una produzione onirica, inserendo la malattia in un dominio, quello dell'interpretazione dei sogni, accessibile alla psicoanalisi”.
Afferma poi (non disconoscendo il modello freudiano) che “quando la libido è trasformata da un processo patologico, l'Io si trova a dover padroneggiare un mondo pazzo, e quindi si comporta come un Io pazzo”.
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Nel proseguire questo breve excursus ho scelto di accompagnarmi a due psichiatri-psicoanalisti che, compiuta la loro formazione nella mittel-euoropa, furono costretti alla fine degli anni '30 a rifugiarsi negli Stati Uniti.
Parlo della Frieda Fromm-Reichmann e di Paul Federn.
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La prima, formata in Germania con Goldstein e Kraepelin e poi divenuta psicoanalista, venne accolta alla famosa clinica Chesnut Lodge (ove successsivamente troveremo Searles, Pao, Feinsilver). Qui si occupò di condizioni psicotiche, disturbi affettivi e schizofrenici. Le sue proposte teorico-cliniche20:
Il
Vaso di Pandora, Dialoghi in psichiatria e scienze umane
Edizioni
La Redancia -
vaso.pandora@redancia.it
Iscrizione al Tribunale di Savona n. 418/93 - ISSN 1828-3748
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