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VOLUME XX
ANNO 2012
N 3
Indice  
IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XX, N°3, 2012



Sommario



Editoriale
Paolo Bianchini
pag. 7

TRA PRASSI E TEORIA


Iperprolattinemia e trattamento antipsicotico nella schizofrenia
Maria Francesca Pantusa, Serena Paparo, Aurora Salerno
pag. 13

APPUNTI DI VIAGGIO


Psicoterapia relazionale sistemica e contesti interculturali


Pier Giorgio Semboloni
pag. 29



QUATTRO PASSI PER STRADA
Considerazioni non sistematiche sui modelli psicoanalitici delle psicosi


Carmelo Conforto
pag. 51


 


OLTRE...


Vivere la crisi economica


Roberta Antonello, Paola Bartolini


pag. 69


EDITORIALE


 


Nell’accingermi a scrivere queste righe di presentazione all’attuale numero del Vaso di Pandora, dopo aver letto gli interessanti articoli che ne fanno parte, una sorta di sgomento mi assale: certamente non si può dire che questo numero della Rivista si risolva in una monografia; anzi, come già tante volte ci ha abituato, essa accoglie contributi all’insegna della più ampia eterogeneità. Cosicché, sulle prime, mi è un po’ arduo rintracciare quel quid che, accomunandoli, mi consenta di avviare questa breve riflessione. Fortunatamente, giungono in mio soccorso alcune parole che scorgo nel bell’articolo di Semboloni, e che prendo momentaneamente a prestito: “terre di confine”.


Ecco, mi sembra appunto che tutti gli Autori facciano questo, si spingano a perlustrare quella frontiera della Psichiatria tra i territori del noto e quelli che, pur non potendosi propriamente definire inesplorati per essere stati nel tempo variamente indagati, nondimeno rappresentano tuttora una sfida aperta e, soprattutto, una sorta di “laboratorio” attraverso il quale raffinare sempre più una reale comprensione del Paziente.


Mi pare collocarsi in questo ambito il lavoro di Pantusa, Paparo e Salerno. Nella loro ben condotta ricerca, le tre Autrici indagano sul rapporto tra nuovi antipsicotici ed iperprolattinemia. Tematica che è già stata oggetto di studi ma che, nondimeno, si situa proprio in quella zona di frontiera in ragione dell’assoluta necessità di approfondirla ulteriormente, non solo per la posizione di primato che tali molecole occupano ormai da tempo nella psicofarmacoterapia dei disturbi psicotici (in virtù non solo della loro efficacia clinica ma, appunto, proprio del loro più favorevole profilo di effetti collaterali), ma anche perché i dati della ancora relativamente recente letteratura sull’argomento, lungi dal potersi dire assodati, necessitano ancora di conferme e/o smentite e correzioni. A riprova di ciò, mi pare innanzitutto degno di attenzione il fatto che, sul piano squisitamente contenutistico, i risultati della ricerca di Pantusa, Paparo e Salerno si scostino dai suddetti dati della letteratura nel ravvisare una prevalenza di iperprolattinemia pressoché equivalente tra i generi. Oltre a ciò, il lavoro delle Autrici è significativo anche sotto il profilo metodologico: evitando una pre-selezione dei casi (a favore di un attento filtraggio “in post-produzione”, secondo criteri molto variati), esse ci offrono uno spaccato del problema trattato, che appare assai vicino alla quotidianità di chi opera ambulatorialmente con pazienti affetti da psicosi. Mi preme infine sottolineare un ultimo merito di questo interessante articolo: richiamare l’attenzione degli Psichiatri su una problematica la cui portata, come le  Autrici stesse evidenziano, è piuttosto sottovalutata in rapporto alle ricadute che ha non solo sul piano della salute fisica dei pazienti ma anche su quello del rischio di drop-out da farmacoterapie altrimenti efficaci.


Prendendo le mosse da una tematica di grandissima attualità – quella della presa in carico dei migranti – Semboloni svolge una meditazione, a mio giudizio di ben più ampio respiro, sull’incontro tra contesti culturali diversi (con particolare riferimento, ma non solo, all’incontro tra Paziente e Terapeuta). Il suo lavoro è in primo luogo una rassegna molto puntuale ed interessante sull’argomento, ricca di spunti di riflessione e, a quanto mi è sembrato, di moniti. Ne cito brevemente alcuni che mi hanno particolarmente colpito: il ricondurre alcuni disturbi psicopatologici ad amplissima prevalenza nel nostro mondo occidentale (l’isteria dei primi del Novecento; la diade disturbi alimentari-dipendenze di oggigiorno) alla categoria dei Disturbi Etnici, per il loro essere espressioni delle tensioni presenti in una data cultura o contesto storico; il richiamare l’attenzione di tutti sul non sovrapporre il concetto di etnicità a quello di cultura (quest’ultima nozione essendo assai più ampia, in quanto vi afferiscono numerose variabili ambientali ed individuali) e, a livello microsistemico, a tenere conto di come l’omogeneità delle caratteristiche di un dato gruppo etnico sia sovrastimata fino allo stereotipo (per cui – mi sembra suggerire l’Autore – una reale conoscenza dell’Altro, pur nell’ineludibilità di un sapere a priori circa i tratti di pensiero del gruppo cui egli appartiene, non può prescindere da un concreto calarsi, senza pregiudizi, nella relazione). Oltre a ciò, e soprattutto, mi pare che il lavoro di Semboloni sia un invito rivolto ad ogni Terapeuta, qualsiasi sia la sua formazione, a cercare, nell’incontro con l’altro, un’obiettività da intendersi non come astratta e virtualmente irraggiungibile osservazione dall’esterno di uno stato di fatto, bensì come disposizione mentale che tenga in debita considerazione tanto come il Terapeuta stesso influenza la situazione quanto come, potendo le culture (intese nell’ampia accezione che si ritrova nell’elaborato di Semboloni) di osservatore ed osservato differire, la  classificazione che il secondo fa di una data esperienza può scostarsi molto da quella del primo.


Come evidenzia Conforto, la psicoanalisi si cimenta con la psicosi fin dal Caso del Presidente Schreber e, comunque (in maniera forse non più compiuta ma, almeno in qualche misura, sicuramente meno accademica), dal lavoro della Spielrein quasi esattamente un secolo fa, e nonostante ciò e nonostante il fatto che durante tale lasso di tempo svariate siano state le incursioni e gli apporti a questa tematica – l’approccio psicoanalitico alla psicosi –, purtuttavia essa si è perpetuata come territorio, appunto, “di frontiera” (e, come tale, sempre attuale) in quanto estremamente fecondo per l’individuazione di nuovi modelli e concetti e la continua riorganizzazione di quelli sviluppati in precedenza.


Innanzitutto Conforto ripercorre tale secolo di confronto tra psicoanalisi e psicosi, e lo fa in maniera mirabile per la capacità di illustrare, attraverso una vasta quanto mirata scelta dei contributi a tale tematica, proprio quanto accennavo sopra, e cioè come, da detto confronto, siano scaturite nozioni e teorie di capitale importanza in quanto, ben lungi dall’essere applicabili al solo ambito delle psicosi, sono state in grado di mutare la visione psicoanalitica circa l’umano accadere psichico in generale.


Senza mai perdere in chiarezza espositiva, Conforto riesce a sintetizzare tale percorso evolutivo del pensiero psicoanalitico circa il problema delle psicosi e, da esso trascinato, della psicoanalisi in toto, tracciando le direttrici più significative lungo il quale esso è avvenuto. In particolare, mi pare che l’accento venga posto, a partire dal sintomo psicotico come accorata tensione ad immettere nell’altro qualcosa di sé (oscillante, nella visione dei vari Autori esaminati da Conforto, ai due lati di un sottile spartiacque: tra mera espulsione di parti intollerabili di sé ed intento comunicativo vero e proprio), sul progressivo mutamento dell’ottica circa la funzione materna (da oggetto libidico a soggetto attivo di una relazione con il bambino concepita in maniera sempre più scambievole) e, in vicendevole influenzamento con questa, circa lo sviluppo psicologico del bambino; nonché, a ricaduta, su come sia andato mutando anche il ruolo dell’analista (in forza di nozioni quali quelle, ad esempio, di identificazione proiettiva e rêverie).


Per chiudere – ormai del tutto rappacificato rispetto all’iniziale turbamento di fronte all’eterogeneità dei contributi che compongono questo numero del Vaso di Pandora – mi preme sottolineare come proprio tale eterogeneità costituisca un ulteriore pregio, al di là del valore intrinseco dei singoli articoli, laddove essa è tale per il fatto che nella Rivista vengono riuniti apporti che afferiscono a quelle tre categorie – sussumibili sotto le desinenze rispettivamente “bio-”, “psico-” e “socio-” – dall’integrazione delle quali si assume, sebbene in maniera forse un po’ scolastica, si possa pervenire ad una reale comprensione dell’unità ed unicità della persona, e quindi del Paziente.

Buona lettura


 


 


Paolo Bianchini


 


 


 


 


 


 Iperprolattinemia e trattamento antipsicotico nella schizofrenia     



ARTICOLI



Maria Francesca Pantusa*, Serena Paparo**, Aurora Salerno***



* Psichiatra, Responsabile Centro Salute Mentale Rogliano (Cs).



** Psichiatra, Centro Salute Mentale Rogliano (Cs).




*** Psichiatra, Dirigente I Livello Centro Salute Mentale Rogliano (Cs).



 


   

RIASSUNTO


Obiettivi: valutare la prevalenza di iperprolattinemia in un campione di pazienti ambulatoriali affetti da schizofrenia e sindromi correlate in trattamento con antipsicotici. Lo studio è stato condotto in un Centro di Salute Mentale dell’Italia meridionale (Rogliano-CS).


Metodi: Abbiamo reclutato n. 110 pazienti ambulatoriali (M/F 54/56, età media 43,5 ± 11,9, R 22-70 anni) con diagnosi di schizofrenia, disturbo schizofreniforme o disturbo schizoaffettivo, trattati con antipsicotici di prima o di seconda generazione per un minimo di 3 mesi prima dell’inserimento nello studio. E’ stata eseguita una rigorosa valutazione della prolattina sierica per stimare il tasso di prevalenza di iperprolattinemia, definita come un livello al di sopra del limite superiore del valore normale con il metodo ECLA (> 456 MUI / ml;> 370 MUI / ml per le donne in stato di menopausa). I pazienti sono stati stratificati in base al trattamento antipsicotico, per sesso e, per le femmine, in base allo stato di menopausa.


Risultati: per il campione globale la prevalenza di iperprolattinemia è stata del 32,7%. Non ci sono state differenze significative di prevalenza in rapporto al sesso. Il trattamento con Risperidone in monoterapia è stato associato a iperprolattinemia nell’87,5% dei pazienti, l’amisulpiride in monoterapia nel 66,7%, aloperidolo e olanzapina nel 37,5%. Aripiprazolo e clozapina non sono stati associati a iperprolattinemia. La Quetiapina ha mostrato un basso rischio di iperprolattinemia (11,1%).


Conclusioni: i risultati suggeriscono che alcuni farmaci antipsicotici sono associati fortemente con iperprolattinemia. Pertanto, nei pazienti in trattamento con farmaci antipsicotici che possono innalzare la prolattina, i livelli di questo ormone dovrebbero essere regolarmente misurati per evitare le potenziali complicanze a lungo termine.


 


PAROLE CHIAVE


Prolattina, schizofrenia, antipsicotici.


 


 


 


 




Pier Giorgio Semboloni*
















*Psichiatra, Psicoterapeuta , Codirettore del Centro Genovese Terapia della Famiglia (Ge).





Psicoterapia relazionale sistemica e contesti interculturali




RIASSUNTO



D’accordo con Devereux, il disturbo etnico rappresenta l’espressione degli sforzi e delle tensioni che sono all’interno di una particolare cultura, o di un particolare periodo storico.  L’evolvere del tempo dimostra cambiamenti dei sintomi quali espressioni di disagio: alcune espressioni di un disagio femminile si sono ridotte ai tempi nostri (isteria), altri tipi di disturbi una volta più rari, o sconosciuti, hanno fatto irruzione  nella società odierna. (disturbi alimentari, dipendenze). Il nostro approccio eco sistemico  ha un tipo di riferimento multidimensionale (Falicov), e in questo senso va oltre sia a quello che si può definire come “Terapia familiare” sia ad un puro approccio etnico.  L’opera antropologica di Bateson ci dà dei criteri guida validi anche per la terapia.  Il primo passo è quello di chiarire che una cultura (una famiglia) osservata può classificare la propria esperienza in una maniera completamente diversa da quella dell’osservatore (o terapeuta). La terapia rappresenta anche un confronto tra epistemologie differenti.


 


PAROLE CHIAVE



Curiosità, epistemologia clinica, etnopsichiatria,  irriverenza, posizione multidimensionale, prospettivismo, sistemi autosservanti, terapia familiare, terre di confine.










Carmelo Conforto*














 


 


Considerazioni non sistematiche sui modelli psicoanalitici delle psicosi6


 


 


Credo nel progresso: nell'invenzione


di una “macchina per leggere i pensieri”


che sono stati pensati.


(Stanislaw J. Lec)


 


 


Propongo di iniziare ricordando la  risposta di Bion (1976, p. 83)7 alla domanda: «Quale è la relazione tra credenza e conoscenza?».


«Non vedo perché ci si dovrebbe preoccupare di credere in qualcosa che si conosce. Si dovrebbe, certamente, riservare la propria capacità di credere per cose di cui non ci sia alcuna evidenza. Altrimenti si dovrebbe trovare un nuovo linguaggio. Termini come «redenza» sono usati in modo molto ambiguo nel linguaggio ordinario; preferisco usarli quando non ho fatti per sostenere ciò che desidero dire. Io «credo» che valga la pena tentare la psicoanalisi con un paziente che può essere definito schizofrenico, se non vi è altro da tentare.


In tal senso si potrebbe dire «credo» nel tentare. Non intendo dire che un paziente schizofrenico possa essere analizzato o curato, sebbene abbia conosciuto pazienti che erano stati diagnosticati insani da persone che per definizione erano qualificati a farlo, i quali, una volta finito la loro analisi con me furono giudicati migliorati da molte persone, ma non da me. Essi avevano trovato la via, qualunque fosse il loro modo di pensare, per poter mostrare una buona imitazione di un  normale essere umano. Ma poiché tutti coloro che erano legati al paziente volevano «credere» in ciò (in questa imitazione), non so quale importanza si possa attribuire alla loro opinione».

 


Ho voluto iniziare con la citazione di Bion perché esprime la duplice "anima" del lavoro psicoanalitico, l'intenzione esplorativa, l'indagine alla ricerca di significati, adatta a costruire modelli intorno alla psicosi, e la propensione terapeutica, implicita nel lungo percorso psicoanalitico.


***


Peraltro Freud, nell'affrontare l'autobiografia del giudice Schreber (1910), alla ricerca del significato, progetto nato (forse) grazie all'assenza del paziente e  dell'impegno  terapeutico, propone la ragione del suo intento:


"L'interesse  dello psichiatra di professione per formazioni deliranti di tal genere si esaurisce comunemente con l'accertamento di quali siano i prodotti del delirio e con la valutazione dei loro effetti sul comportamento generale del malato. Lo psicoanalista fa derivare invece, dalla propria conoscenza delle psiconevrosi l'ipotesi che formazioni mentali tanto inconsuete e così lontane dal nostro comune  modo di pensare traggano origine dai più comuni e comprensibili impulsi della vita psichica, e la sua aspirazione è di imparare a conoscere i motivi e i processi di questa trasformazione".


Al termine del suo percorso, non suffragato da una qualche risposta del malato, aggiunge: "Sarà l'avvenire a decidere se la mia teoria contiene più delirio di quanto non vorrei, o se il delirio di Schreber contiene più verità di quanto altri oggi non siano disposti a credere".


Freud sta parlando della tesi per la quale la paranoia si costruisce come difesa dall'angoscia omosessuale attraverso la formula che ne descrive l'inacettabilità, il ripudio: l'affermazione "Io (un uomo) amo lui (un uomo)" si capovolge nel delirio di persecuzione: " Egli mi odia (mi perseguita), ed io lo odio perché mi perseguita".


Freud, straordinariamente, nel 18948aveva intuito una delle modalità fondamentali della dimensione psicotica: "Esiste per altro una forma di difesa, più energica e efficace, consistente nel fatto che l'Io respinge la rappresentazione incompatibile unitamente al suo affetto e si comporta come se, all'Io, la rappresentazione non fosse mai pervenuta. Solo che, nel momento in cui ciò si attua, il soggetto viene a trovarsi in uno stato di  psicosi classificabile  come "follia allucinatoria".    

 


Cosicché Freud, in certo modo seguendo ciò che le psiconevrosi gli avevano rivelato attraverso il meccanismo della rimozione (verdangung), ripropone anche nella psicosi la fondamentalità di un percorso espulsivo di dati psichici la cui conservazione è intollerabile.


Scrive nel 19239:" In conclusione bisogna concentrarsi sul problema di quale possa essere il meccanismo, analogo alla rimozione, in virtù del quale l'Io si distacca dal mondo esterno. Ritengo che a questo problema non possa essere data una risposta se non vengono effettuate ulteriori indagini; mi sembra però che, al pari della rimozione, tale meccanismo dovrebbe consistere in un ritiro dell'investimento che promana dall'Io (disconoscimento, verleugnung).


Meccanismo che riprenderà nello scritto sul feticismo (1927), in cui la perversione si propone in quanto viene "rinnegata o disconosciuta" (verwefung) l'evirazione della donna.


E' pertanto a partire da ciò che è occultato, rifiutato dall'Io che si inizia a strutturare il modello, successivamente i modelli, della psicosi.


Attraverso ciò che non appare, che sfugge alla consapevolezza, come nelle nevrosi, d'altronde, anche se ben diversa ne è la trasformazione.


***


Trasformazione10 è il  termine con cui Bion indica il lavoro dello psicoanalista quando si prefigge di cogliere il significato di ciò che l'analizzato, attraverso sogni, parole, emozioni, comportamenti, "messa in atto" (enactement), può comunicare di un significato originario, di cui   permangono alcune, o scarse invarianti.


“Un' interpretazione -scrive Bion- è una trasformazione per mostrare le invarianti, sentita e descritta in un modo (dal paziente) e descritta in un altro modo (dal terapeuta)”.


Prendo in considerazione le trasformazioni riguardanti ciò che lo psicotico cerca di rendere pubblico, di comunicare del suo mondo interno.

 


E' a questo livello che i modelli psicoanalitici si sono così faticosamente adoperati, costruendo, immaginando le potenziali, residue capacità transferali e simboliche di stati mentali frammentati, naufragati nella catastrofe, nel crollo originario (quello che Winnnicott ha chiamato crollo dell'unità del Sé e recentemente Rinaldi ha definito stati caotici della mente11).


Questo inseguire il significato della psicosi pretende il tentativo  di decifrazione dei segni (sintomi) psicopatologici che, ove non trasformati, non segnalano se non se stessi, elementi di una diagnosi che non raggiunge cognizioni ontologiche, limitandosi a tentativi di spiegazioni somatogene (lo erklaren che Dilthey e poi Jaspers contrappongono alla funzione del comprendere (verstehen) delle vicende psicopatologiche dell'umano12).


Quando la psicoanalisi ha iniziato a occuparsi di  simboli anche nell'ambito delle psicosi, allora ha creduto che i segni, come scrive Ricoeur13 siano "espressioni che comunicano un senso, manifestato dall'intenzione di significare veicolato dalla parola". Non solo dalla parola, suggerisce la psicoanalisi.


Ha inizio un lungo percorso in cui la relazione psicoanalitica tenta di promuovere un progetto conoscitivo e insieme terapeutico con il paziente psicotico.


***


Penso al lavoro pionieristico di Sabina Spielrein14 (1911), descritto nella sua tesi di laurea: "Il contenuto psicologico di un caso di schizofrenia (dementia praecox)".

 


Inizia la sua tesi scrivendo: “Ho  intrapreso l'indagine di un caso di demenza paranoide senza seguire i canoni della scienza ufficiale, ma guidata unicamente dall'intenzione di dare uno sguardo più approfondito all'anima di questa paziente. Ho scelto questo caso perché la paziente, una donna intelligente e di buona cultura, offre un groviglio di frasi senza senso...... Le prove a sostegno della mia interpretazione derivano in molti casi da affermazioni dirette e spontanee della paziente.... Tuttavia chi vorrà verificare l'esattezza delle mie conclusioni dovrà procedere come un giudice istruttore che si immedesima a tal punto nel fatto da «sentire» in certo qual modo ogni parola15” .


In un contributo del 1992, scritto in collaborazione con la dr.ssa Corsa, prendevamo in considerazione il lavoro della Spielrein giungendo ad affermare che il suo scritto mostrava come la nascita del significato apparisse sospesa, nascosta dietro la forma di domanda con cui si interrogano a vicenda terapista e paziente. "Come se la riunione di queste comunicazioni alla ricerca di un senso assente necessitasse, per avvenire, di un altro spazio, non quello fisico, immediato, ma di un secondo, interno al terapista, in cui fosse, per così dire, sopravvissuta e conservata la nozione, l'idea di un senso potenziale" (1992, op. cit.).    


Si evidenzia qui una fondamentale domanda sulla condizione mentale adeguata al lavoro  dello psicoanalista, a cui risponderà nel modo (per me) più convincente Bion.


L'interrogativo è posto da Binswangwer a Freud (1925)16. Egli si interroga sull'osservazione di Freud per la quale l'analista deve mantenere il proprio inconscio di fronte al suo analizzando quanto un apparecchio ricevente di fronte all'onda sonora17.

 


Scrive nella lettera al maestro: "Mi sono sempre domandato sulla base di quale "capacità" o attitudine mentale voi fate derivare questa affermazione....Il problema di sapere che cosa mi mette nello stato di interpretare è per me più interessante del fare una interpretazione giusta e di imparare qualcosa di nuovo sull'inconscio dell'altro".


Freud risponde, anticipando concetti molto più recenti: “...io so che ciò nasconde altri importanti problemi. Io volevo dire semplicemente che è necessario liberarsi dell'accentuazione conscia di ciò che ci attendiamo, e di conseguenza creare in noi le medesime condizioni di quelle che esigiamo dai nostri analizzandi”.


Risponderà anni dopo Bion introducendo un nuovo modello, che, specifico del legame madre bambino, è adatto a raccogliere i proto-pensieri, i dati sensoriali, le emozioni senza ancora nome del piccolo, onde “convertirli in elementi alfa per provvedere in tal modo la psiche del materiale che le necessita per fabbricare pensieri...”18 .  


Bion ha chiamato con il termine rêverie la capacità mentale della madre aperta a tutti i contenuti provenienti dal bambino e, per analogia, lo stato mentale dell'analista nella relazione con l'analizzato. Riparlerò di questo aspetto fondamentale dopo aver preso (brevemente) in  considerazione alcuni contributi che si sono succeduti prima di giungere alla svolta teorico-clinica impressa dalla Klein e dalla sua scuola tra la fine degli anni '40 e gli anni '50.


***


E' del  1919  il  lavoro di Tausk  “Sulla genesi della 'macchina influenzatrice' nella schizofrenia”19.  


Tausk coglie un aspetto assolutamente specifico del modo d'essere dello schizofrenico, “la perdita dei confini dell'Io”, connessa alla proiezione del proprio corpo,  “paranoia somatica”  come modalità difensiva da impulsi libidici inaccettati (la masturbazione, ad esempio).

 


Esponendo le modalità del suo lavoro con gli psicotici, propone “l'equiparazione del sintomo a una produzione onirica, inserendo la malattia in un dominio, quello dell'interpretazione dei sogni, accessibile alla psicoanalisi”.


Afferma poi (non disconoscendo il modello freudiano) che “quando la libido è trasformata da un processo patologico, l'Io si trova a dover padroneggiare un mondo pazzo, e quindi si comporta come un Io pazzo”.


***


Nel proseguire questo breve excursus ho scelto di accompagnarmi a due psichiatri-psicoanalisti che, compiuta  la loro formazione nella mittel-euoropa, furono costretti alla fine degli anni '30 a rifugiarsi negli Stati Uniti.


Parlo della Frieda Fromm-Reichmann e di Paul Federn.


***


La prima, formata in Germania con Goldstein e Kraepelin e poi divenuta psicoanalista, venne accolta alla famosa clinica  Chesnut Lodge (ove successsivamente troveremo Searles, Pao, Feinsilver). Qui si occupò di condizioni psicotiche,  disturbi affettivi e schizofrenici. Le sue proposte teorico-cliniche20: 


Il Vaso di Pandora, Dialoghi in psichiatria e scienze umane
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Iscrizione al Tribunale di Savona n. 418/93 - ISSN 1828-3748